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Il racconto del venerdì – La bicicletta di rame
di Renzo Samaritani Schneider
L’ho vista per caso, la settimana scorsa.
Non stavo cercando nulla, e forse è proprio per questo che l’ho trovata.
Era appoggiata a un muro di pietra chiara, in una strada laterale di Trani che non compare quasi mai nelle fotografie. Una strada silenziosa, leggermente in discesa, dove il tempo sembra avere meno fretta di altrove.
La bicicletta era lì, immobile, come se stesse aspettando qualcuno. O qualcosa.
Era una vecchia bicicletta di rame, o almeno così sembrava: il telaio aveva preso quel colore caldo e ossidato che solo il tempo sa dare, una tonalità che non è più lucida ma nemmeno spenta. Un colore che racconta stagioni passate, piogge sopportate, estati vissute senza chiedere troppo.
Non era legata.
Non era protetta.
Eppure nessuno la toccava.
Mi sono fermato.
Non per nostalgia — non subito, almeno — ma per una sorta di rispetto istintivo. Come quando senti che qualcosa ha una storia che non va interrotta con la fretta.
Il sellino era consumato, leggermente inclinato verso destra. La pelle aveva perso elasticità, ma conservava una dignità silenziosa.
La catena, mossa da una folata di vento, ha emesso un cigolio sottile, quasi un sospiro.
Il campanello, piccolo e opaco, non suonava più. Un campanello muto, ma non inutile: aveva già detto tutto quello che doveva dire, in un altro tempo.
Ho pensato a chi l’aveva usata.
A chi l’aveva lasciata lì, forse con l’idea di tornare il giorno dopo.
A chi, magari, aveva detto: “La prendo più tardi”, senza sapere che alcune cose non aspettano per sempre, ma nemmeno se ne vanno davvero.
La bicicletta non dava l’idea di essere stata abbandonata con rabbia o incuria.
No.
Era più simile a una pausa lunga. A una frase lasciata in sospeso. A una promessa rimandata senza cattive intenzioni.
In quel momento mi sono accorto di quanto la vita assomigli spesso a quella bicicletta.
Quanti viaggi iniziamo convinti di arrivare lontano, e poi restiamo fermi a metà strada?
Quante stagioni non chiudiamo davvero, ma lasciamo lì, appoggiate a un muro, sperando che il tempo sia gentile?
Il rame del telaio rifletteva una luce morbida, nonostante il cielo fosse velato. Una luce calda, quasi affettuosa.
Non malinconica nel senso triste del termine, ma malinconica come lo sono certe canzoni che non fanno piangere, ma ti mettono una mano sulla spalla.
Mi sono seduto sul gradino di fronte, solo per guardarla meglio.
Le ruote erano sgonfie, ma non rotte.
I raggi ancora al loro posto.
Il manubrio leggermente storto, come se avesse fatto una curva troppo decisa anni prima e non avesse mai sentito il bisogno di tornare perfettamente dritto.
E ho pensato che forse nessuno di noi torna mai del tutto dritto dopo certe curve.
Un signore anziano è passato lentamente, trascinando un carrellino della spesa.
Ha guardato la bicicletta, poi me.
Ha sorriso, appena.
Non ha detto nulla.
Ma in quello sguardo c’era una complicità silenziosa, come se entrambi stessimo leggendo lo stesso libro invisibile.
Quando mi sono alzato per andare via, ho appoggiato una mano sul muro, vicino al telaio.
La pietra era fredda.
Il rame no.
O forse era solo un’impressione, ma mi è sembrato che conservasse ancora un po’ del calore di chi l’aveva guidata.
Sono ripartito a piedi, lasciandola lì.
Non per indifferenza, ma per rispetto.
Alcune cose non vanno salvate, riparate o portate via.
Vanno solo riconosciute.
E mentre tornavo verso casa, ho capito una cosa semplice e necessaria:
non tutto ciò che sembra fermo è rotto.
Non tutto ciò che è in pausa è finito.
Alcune cose — come quella bicicletta di rame — stanno solo aspettando di essere ricordate.
E forse, in fondo, anche noi.
Renzo Samaritani Schneider – Trani, dicembre 2025

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