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"Tre passi dietro la cattedrale" di Renzo Samaritani Schneider

 




Il racconto del venerdì – Tre passi dietro la cattedrale


di Renzo Samaritani Schneider


La settimana scorsa, proprio di venerdì, mi sono ritrovato a camminare da solo per qualche ora.

Era uno di quei giorni in cui la luce di Trani non è né chiara né scura: una via di mezzo sospesa, come se il cielo stesse ancora decidendo che umore avere. Il mare, da parte sua, spingeva l’aria verso le strade con una dolcezza che solo lui conosce, e ogni soffio portava con sé un sentore di sale, di qualcosa di antico, di quieto e di infinito.


Massimiliano era rimasto a casa a finire un lavoro urgente, e Kandy e Khloe dormivano sul divano, una palla nera e una palla bianca accartocciate l’una nell’altra, un piccolo simbolo yin-yang fatto di fusa.

Kitty… beh, Kitty non dorme più, eppure c’è. Sempre. In certe mattine la sento nel silenzio, come un’eco gentile.


Io camminavo senza una meta precisa, solo per sgranchire i pensieri. Quando sono arrivato alla piazza della Cattedrale, quella meraviglia di pietra candida che affonda i piedi nel mare, ho fatto ciò che faccio spesso: ho rallentato il passo.

Davanti a tanta bellezza non riesco a camminare in fretta. Sembra irrispettoso.


La piazza era quasi vuota. Solo qualche turista accaldato, una coppia di signori tedeschi che si muovevano come se stessero tratando un oggetto sacro — e in effetti lo è — e due bambini che correvano inseguendo una palla blu.

Io ho proseguito, costeggiando il lato sinistro della Cattedrale, quello meno fotografato, più ruvido, più vero. Tre passi appena, dietro la grande curva dell’abside, e mi sono ritrovato in un’altra dimensione.


Non lo so spiegare bene, ma dietro la Cattedrale il tempo è diverso.

Lì la pietra è più scura, più consumata. Gli echi rimbalzano in modo diverso. Ogni passo fa un rumore lento, quasi ovattato.


È una zona poco frequentata: chi visita la Cattedrale tende a fermarsi davanti, o ad affacciarsi verso il mare, ma raramente compie quei tre piccoli passi che portano nel retro.

Io invece ci vado spesso.

È un luogo che cura senza fare domande.


E proprio lì, con la Cattedrale che mi faceva da scudo, e il mare invisibile ma presente, l’ho visto.

Un anziano.

Curvo, ma non piegato; elegante nel suo modo di vestire, come certi uomini del passato che ancora credono che uscire di casa sia una forma di rispetto verso il mondo.

Portava un cappello color sabbia, un cappotto beige e teneva un bastone scuro che sembrava un’estensione delle sue dita.


Davanti a lui, un piccolo esercito di piccioni.

Lui parlava con loro.

Non canticchiava, non bofonchiava: parlava davvero.


«Voi siete più fedeli di tante persone, sapete?» diceva, mentre spargeva briciole con una grazia meticolosa.

«E poi non giudicate. Voi venite, mangiate e ripartite. Magari è così che dovremmo fare noi: prendere solo quello che serve e andare avanti.»


Io mi sono fermato, colpito.

Non era un uomo che aveva perso la ragione. No.

Era uno di quelli che avevano capito qualcosa della vita e che ormai non avevano più bisogno di modulare la voce per sembrare “normali”.


Mi ha visto.

Non si è spaventato, non ha smesso di parlare.

Ha semplicemente sollevato lo sguardo e mi ha sorriso, un sorriso lento, di quelli che non si fanno per cortesia, ma per riconoscimento.


«Buongiorno,» gli ho detto, un po’ incerto.

«Buongiorno a lei,» ha risposto.

Poi ha indicato i piccioni, come si presentano amici di lunga data.

«Loro non parlano la nostra lingua, ma capiscono tutto.»


C’era qualcosa di disarmante, in quell’uomo.

Mentre parlavamo, continuava a distribuire briciole come se stesse seminando una piccola speranza.

Ogni tanto uno dei piccioni gli si avvicinava fino quasi a toccargli la scarpa, e lui gli sussurrava qualcosa: parole brevi, frasi spezzate, ma piene di dolcezza.


«Venga qui, guardi questa pietra,» mi disse a un certo punto, indicando un blocco scurito dal tempo.

«Questa parte della Cattedrale è più calda. Ci passa il sole prima che altrove.»

Sfiorò la superficie con la mano, come se accarezzasse un volto.

«Le cose hanno memoria,» disse. «Ricordano più di quanto noi permettiamo a noi stessi.»


Quelle parole mi si sono infilate addosso come una sciarpa inaspettata.

Hanno risvegliato in me un pensiero semplice ma fondamentale: che sì, anche noi portiamo addosso memorie, e che camminare per città antiche come questa è un modo per riconciliarci con ciò che abbiamo dimenticato di ricordare.


Rimanemmo insieme qualche minuto, senza fretta.

Un silenzio buono tra una frase e l’altra.

A un certo punto, lui si è voltato verso il mare.

«Sa cosa diceva mia moglie?»

«Cosa?»

«Che il mare è un vecchio che ha visto tutto e che per questo preferisce parlare poco.»


Sorrisi.

Era impossibile non sorridere.


Poi, con la stessa naturalezza con cui era apparso, l’uomo ha fatto un passo indietro, ha bussato leggermente con il bastone sulla pietra — come se salutasse la Cattedrale — e si è incamminato verso una stradina laterale.

Non mi ha detto il suo nome.

Non ha chiesto il mio.

Non c’è stato scambio di saluti finali.

Niente che appartenesse al protocollo.

Solo un incontro.

Pulito. Essenziale. Completo.


Quando mi sono voltato un secondo per guardare i piccioni, lui non c’era più.

Era svanito dietro l’angolo, come se fosse venuto apposta solo per dirmi due o tre cose giuste al momento giusto.


Sono rimasto lì ancora un po’.

La pietra scura sotto la mano, il mare che respirava da qualche parte dietro di me.

E ho pensato che a volte non servono lunghi discorsi per sentirsi meno soli: basta un uomo che parla con gli uccelli e una Cattedrale che ascolta.


Quando sono tornato verso casa, mi sentivo più leggero.

Massimiliano mi ha chiesto com’era andata la passeggiata.

Gli ho risposto soltanto:

«Ho fatto tre passi dietro la Cattedrale.»

Lui ha annuito, come se bastasse.

E forse sì: a volte bastano tre passi per tornare un po’ più vivi.


Renzo Samaritani Schneider – Trani, 14 novembre 2025



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