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Tra solitudine e immensità: il respiro di Ungaretti



In un’alba di guerra, un poeta compone due parole che aprono l’universo. Nel silenzio della trincea, la fragilità dell’essere umano si fa foglia d’autunno, sospesa tra terra e cielo.


Giuseppe Ungaretti è una voce che risuona con poche sillabe e lascia una scia di luce. Nato nel 1888 ad Alessandria d’Egitto e cresciuto tra le sabbie del deserto, visse la giovinezza tra Parigi e il fronte del Carso. La sua poesia nasce dalla guerra, dalla migrazione e dalla contemplazione; utilizza un linguaggio sintetico ed essenziale per esprimere sentimenti di solitudine, dolore e sofferenza esistenziale. Le esperienze del poeta soldato lo porteranno a maturare la consapevolezza che tutti gli uomini sono fratelli, uniti dal medesimo destino di dolore. Dopo la guerra, Ungaretti si dedicherà al giornalismo, alla ricerca spirituale e all’insegnamento, ma la sua poesia resterà per sempre un taccuino di frontiera tra l’io e il mondo.


È proprio nel gelido inverno del 1917 che scrive “Mattina”, uno degli emblemi dell’ermetismo. La poesia è composta da due soli versi: «M’illumino / d’immenso». In queste quattro parole il poeta testimonia il contatto tra il finito e l’infinito, tra la carne e lo spirito. La lirica fu scritta a Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917, quando Ungaretti inviò all’amico Giovanni Papini una cartolina con tre composizioni nate all’alba nel fango del Carso. La versione iniziale comprendeva alcuni versi aggiuntivi, ma l’autore decise poi di ridurla all’essenza, trasformandola in un lampo che avvicina lo sguardo all’assoluto. L’allitterazione della m e la sinestesia tra luce e immensità rendono palpabile il respiro dell’universo. Davanti a questo spiraglio, il lettore sente la stessa vertigine del poeta: un mondo che si apre con una parola, una rivelazione che non si può spiegare con la logica. Cosa vuol dire “illuminarci d’immenso”? Forse sentire che la nostra anima è un atomo che riflette il cielo, che nelle tenebre del conflitto possiamo riscoprire una sorgente di gioia.


L’altra immagine che Ungaretti ci consegna, quasi uno specchio dell’epoca, è “Soldati”. Anche questa poesia è brevissima: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie». Il componimento fu scritto nel bosco di Courton nel luglio 1918, verso la fine della Grande Guerra. Nel suo commento, si ricorda che la precarietà della vita dei soldati è come quella delle foglie di autunno e che basta un filo di vento per staccarle dal ramo. Ungaretti non usa alcuna punteggiatura: lascia che le parole scivolino come foglie che cadono, in un flusso continuo che ferma il tempo. La metafora richiama antiche tradizioni – dal canto di Omero ai versi di Virgilio – ma qui diventa un sussurro quotidiano: l’uomo in trincea si sente appeso, pronto a scomparire, e al tempo stesso legato all’albero della vita. Leggendo questi versi oggi, sentiamo tutta la fragilità della nostra condizione. Come foglie sospese, siamo esposti al vento della storia, alle tempeste interiori e all’imprevedibilità del destino. Ma, come la pianta che perde le sue foglie per tornare a germogliare, anche la nostra vulnerabilità può essere preludio di rinascita.


Dietro queste immagini c’è un’idea di poesia come strumento di conoscenza. Ungaretti concepisce la poesia come via per avvicinarsi alla realtà interiore e all’universo, attraverso relazioni analogiche che permettono di scoprire legami nascosti e di sentirsi in armonia con il tutto. La parola diventa quindi meditazione, scavo nell’essenza, tentativo di nominare l’innominabile. I suoi versi, così brevi e illuminati, non sono aforismi da contemplare soltanto per la loro bellezza formale, ma inviti a fermarsi, a respirare e a percepire. Sono un ponte tra la memoria della sofferenza e il desiderio di pace. Quando Ungaretti scrive “Non gridate più, solida / si è la vita” o “Tutti gli uomini sono fratelli”, suggerisce che il dolore può diventare compassione e che dalla cenere della guerra può rinascere una speranza.


Nel leggere oggi la sua poesia, possiamo trovare un terreno comune con il nostro percorso di crescita interiore. Le immagini di alba e autunno diventano metafore per le nostre transizioni: ogni mattina è un piccolo risveglio, ogni caduta una possibilità di rinnovamento. Nel laboratorio di Connessioni Vive, in cui bellezza, conoscenza e spiritualità si intrecciano, le parole di Ungaretti ci ricordano che la semplicità può essere profonda, che la realtà più dura può rivelare uno spiraglio di luce. Il poeta ermetico ci insegna a cercare l’essenziale, a guardare con stupore anche ciò che sembra insignificante, a percepire l’immensità nascosta nelle cose quotidiane.


Così, tra un foglio di carta e l’orizzonte che ci abita, la luce che illumina l’immenso diventa la nostra stessa voce.

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