“L’arte deve essere come una preghiera silenziosa: non chiedere nulla, ma offrire tutto.”
Nel mondo di Mark Rothko (1903–1970) non ci sono figure, né storie, né orizzonti.
Solo campi di colore che respirano, si toccano, si fondono.
Eppure, davanti a quei rettangoli sospesi, qualcosa in noi si ferma.
La mente tace, e resta solo la presenza.
Rothko non dipingeva il colore, dipingeva l’emozione che si nasconde dietro.
I suoi quadri non rappresentano: evocano. Sono esperienze spirituali, spazi di risonanza.
Guardare un suo dipinto è come ascoltare un mantra visivo: l’occhio resta fermo, ma il cuore si muove.
Negli anni Cinquanta, mentre l’arte americana esplodeva in gesti e materia, lui scelse la via opposta: la quiete.
Le sue grandi tele non gridano, ma assorbono.
Ogni sfumatura è un confine tra luce e ombra, tra dolore e pace.
E così il quadro diventa una soglia — una porta verso l’interiorità.
“Se vi sentite sopraffatti davanti ai miei quadri, significa che avete capito.”
Rothko credeva che l’arte dovesse toccare il sacro.
Non quello delle religioni, ma quello del sentire umano profondo.
Dipingeva in silenzio, in piedi, davanti a tele che superavano la sua altezza, come se stesse officiando un rito.
Ogni colore diventava una vibrazione, un respiro che avvicina al mistero.
Oggi, in un tempo rumoroso e distratto, Rothko ci insegna un’arte della lentezza e dell’ascolto.
I suoi quadri non vogliono essere capiti — vogliono essere abitati.
Entrarci dentro significa lasciarsi attraversare.
E in quel vuoto, che non è assenza ma pienezza silenziosa, riconosciamo la stessa sostanza del respiro.
Forse il colore è la forma più pura della meditazione.

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