*In certi giorni la poesia non è un verso, ma un ascolto che si fa vertigine. Nei luoghi più quieti, dove l’eco dell’essere coincide col respiro del mondo, nasce la voce di Rainer Maria Rilke.*
Rainer Maria Rilke, nato a Praga nel 1875, fu uno dei grandi poeti del Novecento, ma per lungo tempo rimase un “outsider” nel panorama letterario europeo. Figlio di un funzionario boemo e di una donna dal temperamento forte, attraversò presto l’esperienza della separazione familiare e venne mandato in una scuola militare austera. Quel periodo segnò profondamente il suo spirito: la disciplina gli era insostenibile e proprio allora iniziò a scrivere poesie e a tenere un diario. La sua richiesta di lasciare la scuola e iscriversi a giurisprudenza fu un primo gesto di ribellione: la poesia sarebbe presto diventata un’altra forma di diserzione, non dal mondo ma dal rumore, per cercare un varco verso l’interiorità.
Dai primi componimenti alla pubblicazione della raccolta *Libro d’Ore* e dei celebri *Quaderni di Malte Laurids Brigge*, la ricerca di Rilke è sempre stata una via di conoscenza. Seguendo le orme del romanticismo tedesco, si avvicinò a Novalis e alle concezioni filosofiche di Fichte, Schopenhauer e Nietzsche. Queste influenze, depurate da ogni riferimento cristiano tradizionale e rilette alla luce di un’attenzione scientifica per il reale, costruirono la sua visione poetica: la religiosità diventò domanda, gli angeli non furono più figure dogmatiche ma archetipi dell’interiorità, simboli di bellezza e terrore insieme.
La poesia per Rilke non era un linguaggio per descrivere, ma un modo per “ascoltare” le cose. Nelle *Elegie duinesi* composte tra il castello di Duino e vari soggiorni in Europa, la voce del poeta invoca angeli e domande cosmiche. Non c’è certezza, solo un dialogo tra finito e infinito: «Chi, se io gridassi, mi udrebbe dalle schiere degli angeli?» sembra chiedere. Eppure la risposta non arriva: il vero interlocutore resta l’io, fragile e mortale. L’angelo rilkeiano non è un essere salvifico, è un limite che ci costringe a guardare dentro, a sostare nel “tra” che separa la vita e la morte.
Un altro pilastro dell’opera rilkeiana è il *Libro delle immagini*. Qui la poesia diventa visione; ogni immagine quotidiana — un vaso di fiori, una statua antica, un volto amato — è filtrata attraverso la coscienza, divenendo soglia verso un altrove. Nei versi rilkeiani la realtà è sempre doppia: ciò che vediamo esiste perché qualcuno lo guarda e, guardandolo, lo trasforma. Questa idea ritorna nelle *Lettere a un giovane poeta*, dove Rilke, rispondendo alle domande di Franz Xaver Kappus, esorta alla solitudine come condizione per creare: «Andate dentro di voi. Cercate la profondità da cui nasce la vostra vita; è soltanto lì che troverete la verità». La solitudine non è isolamento, ma spazio di coltivazione dell’anima.
Nel suo peregrinare tra Praga, Parigi, la Russia, la Svizzera e l’Italia, Rilke cercò luoghi in cui potesse “ascoltare” meglio: chiese, biblioteche, giardini, ma anche le sale di musei. Amò Rodin e la scultura, imparò che un’opera vive soltanto se ha un proprio spazio silenzioso attorno. Per questo la sua poesia si avvicina alla scultura: elimina il superfluo, intaglia le parole finché resta solo l’essenziale. Le sue ultime opere, i *Sonetti a Orfeo*, celebrano la musica invisibile delle cose e il potere trasformatore del canto. Orfeo è il poeta per eccellenza, capace di far danzare gli alberi con la sua lira; ma dopo la sua morte restano le parole che generano mondi.
Negli ultimi anni Rilke soffrì di malattia e visse una solitudine sempre più fisica. All’inizio degli anni Venti furono diagnosticati disturbi ossessivi e dolori intestinali che lo minarono nel corpo. In un sanatorio svizzero, consapevole della propria fine, scrisse l’epitaffio “Rosa, oh pura contraddizione, desiderio / di essere il sonno di nessuno sotto tante palpebre”. Morì il 29 dicembre 1926, lasciando dietro di sé un corpus poetico che continua a parlare a chi cerca un contatto più profondo con l’esistenza.
La ricerca dell’io in Rilke è anche una ricerca della parola giusta. Influenzato dalla filosofia ma allergico ai sistemi, concepì la poesia come un laboratorio in cui l’uomo si trasforma ascoltando il mondo. I suoi versi non danno risposte ma aprono domande: «Perché dobbiamo essere uniti se non possiamo sostenerci?», «Qual è la distanza che ci separa dall’angelo?». Nessuna certezza, solo la possibilità di abitare le domande fino a diventare domanda noi stessi. Così, nel cantiere di parole e silenzi di Rilke, ogni lettore può trovare uno specchio e sentirsi parte del respiro universale.
*Restare nell’incertezza è il coraggio più alto: tra gli angeli e le rose, tra il visibile e l’invisibile, la poesia ci insegna a dimorare nelle domande.*

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