*Ci sono momenti in cui il tempo ci attraversa senza fretta, come un fiume che scorre e riflette le nuvole.*
Viviamo in un’epoca in cui la velocità sembra essere la misura di ogni cosa. Ci muoviamo tra notifiche e scadenze, tra viaggi e desideri, e spesso perdiamo il respiro della lentezza. Ma il tempo non è solo cronologia: è il tessuto invisibile che avvolge i ricordi, è la sostanza che permette alla nostra interiorità di maturare. Ricordare significa trattenere la vita dentro di sé, proteggerla dal vortice dell’oblio. Il poeta Giuseppe Ungaretti, che nelle sue opere riduceva la parola all’essenziale per esprimere dolore e solitudine, sapeva che la memoria è un atto di resistenza. Nei brevi versi di *Mattina* ("M’illumino d’immenso"), il lampo dell’immensità in un attimo dimostra come un singolo istante possa racchiudere un universo.
La lentezza non è inerzia, ma consapevolezza. Permette di cogliere le sfumature che altrimenti passerebbero inosservate: il rumore del vento tra le foglie, l’odore del pane appena sfornato, il sorriso di una persona cara. Nei suoi saggi, Italo Calvino esalta la *leggerezza* come capacità di planare sulle cose dall’alto senza appesantirle. Questa leggerezza si conquista proprio grazie alla lentezza: solo chi rallenta può vedere oltre la superficie, percepire la trama sottile che lega gli eventi. Ogni gesto quotidiano può diventare un rito se compiuto con attenzione; ogni parola scambiata può farsi poesia se ascoltata davvero.
La memoria è il luogo dove si incontrano presente e passato. Quando ricordiamo, riorganizziamo il flusso della vita e lo trasformiamo in narrazione. Le nostre storie non sono lineari: tornano indietro, si intrecciano, ritornano in avanti. Questo movimento circolare è simile al lavoro della poesia, che secondo Ungaretti è un modo per conoscere la realtà attraverso relazioni analogiche tra coscienza e universo. Memoria e poesia condividono la stessa tensione verso l’inesprimibile, la ricerca di un senso in ciò che accade. Per questo la lentezza è indispensabile: soltanto fermandoci possiamo entrare nella trama dei ricordi, ascoltare la voce che li attraversa.
In un mondo orientato all’efficienza, parlare di lentezza significa anche parlare di resistenza interiore. Non si tratta di opporsi alla modernità, ma di scegliere come vivere dentro di essa. La lentezza crea spazi di contemplazione, pause che ci permettono di domandarci chi siamo. Come ha scritto la filosofa Hannah Arendt, "ciò che facciamo e ciò che siamo inizia con il pensare". Pensare richiede tempo, richiede uno scarto dai ritmi imposti. Possiamo camminare senza meta in un parco autunnale, lasciare che il ritmo dei passi sincronizzi quello del cuore. Possiamo sederci a guardare la luce cambiare sul muro, ascoltare il rumore del proprio respiro. Queste esperienze, apparentemente semplici, diventano pratiche di cura.
Alla base della lentezza c’è la gratitudine. Ricordare un volto, una parola, una sensazione, significa riconoscere la ricchezza delle nostre esperienze. La lentezza ci insegna che non tutto deve essere utile per essere prezioso, che il valore della vita risiede spesso nei dettagli. Come scrive Fernando Pessoa, "gli dei sono dèi perché non si preoccupano" — c’è qualcosa di divino nello sguardo che sa contemplare senza fretta. In questo modo, la memoria diventa celebrazione, e il tempo non è più un nemico ma un compagno.
*Il tempo è un giardino segreto: solo chi sa camminare piano ne scoprirà i fiori nascosti.*

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