“Felice chi è diverso essendo egli stesso.”
Nel panorama del Novecento italiano, Sandro Penna (1906–1977) è un poeta che sembra venire da un luogo di luce sottile, dove la tristezza non pesa e la felicità non fa rumore.
La sua poesia non racconta, accade: un ragazzo che passa sul lungotevere, una stanza piena d’aria, un pomeriggio qualunque che diventa eterno.
Penna non usa il linguaggio della denuncia o della ribellione, ma quello della trasparenza. È un poeta dell’attimo, della grazia quotidiana.
Le sue parole non inseguono l’assoluto — lo sfiorano, come la brezza che piega un filo d’erba senza spezzarlo.
“La vita è bella. Non perché piena di cose belle, ma perché c’è la vita.”
La sua voce è unica perché non finge: è nuda, onesta, lieve.
In un secolo che ha gridato la tragedia, Penna ha scelto di sussurrare la bellezza.
Eppure, dietro la semplicità apparente, si muove un abisso: la malinconia, la solitudine, la consapevolezza del tempo che passa e cancella.
La sua leggerezza non è fuga — è resistenza: un modo per non lasciarsi travolgere.
Penna è un poeta dell’invisibile visibile: tutto ciò che accade fuori accade anche dentro.
Le sue immagini sono chiare come l’acqua, ma chi legge sa che sotto la superficie c’è profondità.
E questa è forse la sua più grande lezione: la verità può essere detta con dolcezza.
La leggerezza non è mancanza di peso: è equilibrio.
In un’epoca che confonde il rumore con la forza, Penna ci ricorda che la poesia è silenzio che sa farsi sentire.
Che la delicatezza non è debolezza, ma una forma di intelligenza del cuore.
E che la felicità — come la poesia — non si conquista: si riconosce.

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